“Il nostro scopo è la maturazione della persona umana in tutti i livelli, e cioè un umanesimo integrale che rischia oggi di essere schiacciato dalle prepotenze tecnologiche, ma anche da quelle ideologiche, di mercato. Noi puntiamo non tanto a convertire i cervelli quanto a farli ragionare alla luce di una ragione che non si ripieghi però su se stessa, ma si dilati negli spazi della fede e dell’amore”. Intervista a Mons Enrico Dal Covolo Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense su Specchio Economico.
«La mia storia è abbastanza semplice ed è racchiusa nello stemma della mia prima famiglia, un’antica famiglia veneta che risale addirittura ai tempi di Carlo Magno. Sono l’ultimo di 10 figli, 5 maschi e 5 femmine. La mia seconda famiglia è quella salesiana e la terza è la lateranense, che mi ha affidato il Papa. Sono nato a Feltre, nel Bellunese, tra l’altro diocesi di Papa Luciani, che era un amico di famiglia e veniva spesso a trovarci; ricordo che voleva insegnarci i giochi della dama e degli scacchi, ma noi eravamo vivaci e non abbiamo imparato nulla. Era un sacerdote molto simpatico e mai avrei pensato che sarebbe diventato papa e che io sarei diventato il suo postulatore. Poi ci siamo trasferiti a Milano perché mio papà era magistrato e lì ho conosciuto i salesiani e ho deciso di entrare a farne parte». Così inizia l’intervista a monsignor Enrico dal Covolo, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. Ha professato i voti nel 1973; nel 1974 si è laureato in Lettere Classiche ed è stato ordinato sacerdote nel 1979. Ha conseguito il dottorato in Teologia e Scienze Patristiche e insegnato nella Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana di cui è stato preside-decano e, in seguito, vicerettore. Nel 2003 è stato nominato Postulatore generale per le cause dei Santi della Famiglia Salesiana. L’allora Papa Benedetto XVI l’ha nominato nel 2010 Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, elevandolo alla dignità episcopale ed assegnandogli la sede titolare vescovile di Eraclea.
Domanda. Come ricorda di essere entrato nel sacerdozio?
Risposta. All’Opera Salesiana di Arese vidi ragazzi perduti trasformarsi completamente; mi dissi che ne valeva la pena e cominciai a frequentarli diventando prima salesiano, poi prete. Dopo alcuni anni feci il preside di un istituto tecnico per le arti grafiche, lontano dalle mie specificità umanistiche; dopo quell’esperienza fui trasferito alla Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana. Sono stato poi preside e decano, vicerettore, postulatore generale e infine rettore e vescovo dell’Università Lateranense.
D. Che cambierebbe ora nella scuola?
R. Insegno dai miei 19 anni di età e adesso ne ho 63; quello che manca alla scuola è la famiglia, che per la Chiesa è la priorità più grande, intesa come cellula vivente della società. Non ho imparato i valori sui banchi di scuola, ma nella convivenza con i miei familiari. Ricordo le gite in montagna con papà davanti, noi in ordine gerarchico e la mamma che chiudeva, e sempre il rispetto profondo del passo dell’ultimo, che ero io. Così si imparano i valori. Se manca la famiglia il resto è suppletivo, si riesce a fare quello che si può, ma è la famiglia il nucleo fondamentale.
D. Forse perché la donna è proiettata verso altri obiettivi?
R. Forse è anche per questo motivo.
D. La Pontificia Università Lateranense garantisce agli studenti una crescita culturale, umana e pastorale. Sono queste le linee guida da dare alle nuove generazioni?
R. Certamente. Questa Università risponde alla missione affidatale di un un’offerta formativa a 360 gradi. Non solo informazioni da fornire, che si dimenticano poco tempo dopo, ma un apparato formativo che metta gli studenti in condizione di rispondere alle sfide esistenziali attuali. Non è impresa facile, ma è ciò a cui l’Università punta, mettendo al primo posto una sintesi del sapere che non può non essere di tipo filosofico-teologico e non può non rispondere agli interrogativi umani: chi sono, perché vive, qual è il senso del dolore e della morte, come spendere nel modo migliore le mie risorse.
D. Che differenza c’è tra la Lateranense e un’università pubblica?
R. Hanno un denominatore comune, ma oggi l’idea stessa di università è molto diversificata. L’università è nata nel Medioevo in casa-Chiesa, «universitas scientiarum» che al vertice e come punto di reductio ad unum prevedeva la sintesi filosofico-teologica. Molte università hanno rinunciato a ciò. L’università Lateranense, invece, si propone di conservare integra l’idea genuina di università.
D. Per quanto riguarda il settore accademico, quali sono le facoltà?
R. Quelle tradizionali delle università pontificie sono Sacra Teologia, Filosofia e Diritto Canonico. Si aggiunge la Facoltà di Diritto Civile, che insieme a quella di Canonico costituisce l’Istituto Utriusque Iuris che ha, a sua volta, un percorso di studio proprio, il cui Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza è, per decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica della Repubblica Italiana, equipollente al titolo rilasciato dagli atenei italiane. Infine, c’è l’Istituto Pastorale Redemptor Hominis, puntato alla formazione soprattutto dei sacerdoti, perché abbiano una dimensione pastorale capace di rispondere alle sfide del momento. Non abbiamo mai pensato ad altre facoltà perché l’ordinamento didattico è sotto l’egida di una costituzione ecclesiastica che è la Sapientia cristiana e che privilegia proprio queste facoltà tradizionali.
D. In che modo questa istituzione può svolgere nel mondo digitale un ruolo da protagonista?
R. È quanto stiamo perseguendo mediante le specializzazioni del Redemptor Hominis; ha ottenuto un particolare riconoscimento proprio il master in giornalismo digitale, sponsorizzato, tra l’altro, dai massimi organismi giornalistici non solo italiani. Siamo contenti, perché chi frequenta questo master trova più facilmente occupazione nell’odierno disastrato mercato del lavoro di oggi, anche per gli agganci che si creano con professori e personalità che invitiamo e per i tirocini pratici presso prestigiose realtà giornalistiche.
D. L’aspetto «globale» dato dalla rete di sedi e collaborazioni dell’Università, oltre alla dimensione culturale e spirituale, può essere inteso come un messaggio universale?
R. Certo, nel senso che il nostro scopo è la maturazione della persona umana in tutti i livelli, e cioè un umanesimo integrale che rischia oggi di essere schiacciato dalle prepotenze tecnologiche, ma anche da quelle ideologiche, di mercato. Ciò fa vittime soprattutto tra i giovani, verso cui si dirige una propaganda spesso nefasta da parte dei media, delle istituzioni mondiali, perché da sempre i giovani sono la parte più appetibile, e manipolare i cervelli significa avere successo. Ma se il successo è a fini commerciali o ideologici, non può essere un successo. Noi puntiamo non tanto a convertire i cervelli quanto a farli ragionare alla luce di una ragione che non si ripieghi però su se stessa, ma si dilati negli spazi della fede e dell’amore, secondo l’insegnamento del grande papa emerito Benedetto XVI.
D. Quanti giovani che vogliono entrare alla Lateranense sono preparati al ragionamento?
R. La scuola oggi non prepara granché i giovani alla ricerca universitaria, quindi dobbiamo studiare formule propedeutiche di avvicinamento, cercando di non abbassare la qualità ma rendendo fruibile l’insegnamento che proponiamo, altrimenti si creerebbero discrasie insanabili. Si aggiunge che la Pontificia Università Lateranense è rivolta non solo alla cultura italiana ma a tutte le culture: c’è anche la barriera linguistica e culturale da superare. Abbiamo cercato di creare livelli di conoscenza della lingua italiana e della cultura di base comuni a tutte le università pontificie romane. È un traguardo raggiunto lo scorso anno e che stiamo collaudando con successo. L’impressione è che si tratta comunque di lavori continui in corso, perché le sfide sono tante e in continua evoluzione.
D. Si possono conciliare la fede e la scienza?
R. Rimando all’Enciclica «Lumen fidei» che, fin dai primi paragrafi, ne parla esaurientemente. Scienza e fede possono e devono andare d’accordo: la scienza, come la ragione, se si ripiega su se stessa, diventa la morte dell’uomo perché narcisistica e autoreferenziale. Dovrebbe dilatarsi, rimanere aperta su orizzonti più ampi, anche se non di sua stretta competenza, non precludere l’apertura agli orientamenti della fede e dell’amore, elementi costitutivi e innegabili della persona umana.
D. C’è qualche conflitto tra la scienza e la fede?
R. C’è almeno un’area in cui lo scienziato «ateo» ma onesto, e con il credente onesto si può trovare un terreno di dialogo, che è il dubbio, perché nessuno scienziato onesto potrà mai affermare che è tutto qui, perché tante cose gli sfuggono. Nessun credente che sia veramente tale potrà sfuggire all’interrogativo del dubbio: «Ma è veramente così?». Persino Giovanni Battista se lo chiese in carcere: «Ma sei veramente tu Colui che doveva venire?». Il dubbio tocca ogni credente, tocca anche me che pure sono vescovo: «Tu Dio ci sei davvero e mi ascolti oppure no?». L’area del dubbio è, secondo me, l’area del dialogo più efficace tra il credente e il non credente, perché almeno in questo tutti e due si trovano d’accordo. È il punto d’incontro e questo è il pensiero espresso in maniera magistrale in «Introduzione al cristianesimo» di Benedetto XVI: Benedetto è senza dubbio il teologo più importante che oggi abbia la Chiesa.
D. L’agnostico Benedetto Croce affermava che «non possiamo non dirci cristiani», eppure oggi l’Occidente non sembra più avere un’impronta cristiana. Ritiene che certi valori siano in pericolo, che sia in atto uno scontro di civiltà? Come dovrebbe reagire la Chiesa?
R. La crisi esiste ed è impossibile negarla. Crisi economica ma soprattutto di valori e ogni sbaglio nella gerarchia dei valori comporta gravi perdite proprio a livello di antropologia. A mio parere la convivenza civile non può essere fondata che su una scala di valori condivisa, ma oggi i valori vengono sottoposti al parere della maggioranza, quindi il valore più importante è la tolleranza. Sarà il valore più condiviso nell’opinione comune, ma una tolleranza che diventa poi dittatura delle minoranze uccide la democrazia e uccide l’uomo. Bisogna ricomporre tutto il discorso, ritornare a una scala dei valori veramente efficace. A mio parere e alla luce di quanto detto prima, circa una ragione aperta alla fede e all’amore, il massimo valore non può che essere l’amore con la «A» maiuscola. Anche la libertà è certamente un valore che distingue l’uomo dalla bestia, un valore altissimo ma non può essere assolutilizzato. Se non ci rimettiamo d’accordo su una scala di valori condivisa, temo che la convivenza civile diventi sempre più un «homo homini lupus».
D. Come siamo arrivati a questo? Cosa si può fare per riportare un equilibrio in questa società?
R. Siamo arrivati a questo punto attraverso le tragedie gravissime che hanno contrassegnato il XX secolo: le guerre mondiali, i totalitarismi, il nazismo, il comunismo esasperato; e siamo giunti a un capitalismo liberistico che ripercorre piste sbagliate e che oggi ha una forza imponente dal punto di vista economico e di gestione dei cervelli, forse mai verificata prima. Si pensi all’ideologia del gender: se si avesse il cervello adatto, si capirebbe subito che è sbagliata dal punto di vista umano, e qui non c’entra la fede, c’entra la persona. Siamo arrivati a questo punto a causa di una propaganda massiccia da parte di alcune lobby che hanno interesse a destabilizzare la convivenza civile, perché così riuscirebbero ad avere potere ed economia più liberi. Secondo me, si consuma una grandissima battaglia e l’unica risposta che so dare è l’educazione. Bisogna riprendere con coraggio l’educazione dei giovani secondo il sistema preventivo di Don Bosco, che segue la ragione, la religione e l’amorevolezza. Benedetto XVI parla di ragione, fede e amore, ossia la stessa cosa trasferita nel contesto culturale di oggi, passando attraverso la vicinanza profonda con i giovani, i quali devono sentire che la Chiesa non è lontana, ma è dalla loro parte, che è la loro madre, l’istituzione che li segue con maggior passione e non li lascia mai soli.
D. Mancano forse educatori religiosi adeguati, che conoscano il linguaggio dei giovani?
R. Purtroppo è così, incontro spesso educatori e genitori scoraggiati, e li capisco. Innanzitutto ci vuole una forte dimensione spirituale; non avendo un riferimento alla fede, al Signore, ai Sacramenti, alla Grazia, non si riesce a stare in piedi. In secondo luogo occorre un’alleanza tra le varie agenzie educative. Non si può andare in ordine sparso: Chiesa, parrocchia, centri giovanili, famiglia, università, dovrebbero avere un progetto educativo comune.
D. Nel rapporto tra fede e politica si giocano molte questioni di ordine culturale, etico, morale, legislativo. Il suo punto di vista?
R. Ultimamente si è fatto poco per la formazione politica dei giovani e in essi vedo sempre più diminuire la passione per l’impegno politico. Cerco di proporre ipotesi, corsi, formazione in questo senso, ma ci vorrebbe una passione maggiore e condivisa. Temo che oggi, soprattutto i più giovani che incontro nella facoltà di Diritto civile, continuino a pensare che in fondo la politica è un affare sporco di interessi personali nel quale si promuovono i propri guadagni. Questo purtroppo è quello che emerge, ma vorrei che questa università fosse un centro nel quale si formano i giovani anche ad un’attività politica seria e cristianamente ispirata. Per questo ho messo in piedi due iniziative: l’area di ricerca sulla dottrina sociale della Chiesa «Caritas in veritate», dal titolo dell’ultima Enciclica di Benedetto XVI, e l’area di studi per lo sviluppo della cultura africana, dipartimento dedicato alla formazione di persone impegnate nella politica per l’Africa, dove purtroppo è gravissima la tentazione della corruzione in politica.
D. Può tracciare un bilancio del Pontificato a un anno dall’elezione del primo pontefice che ha scelto di chiamarsi come il Santo dei poveri, San Francesco d’Assisi?
R. Papa Francesco raccoglie l’eredità di Benedetto XVI in modo egregio; e per trovare un papa dal punto di vista dottrinale come Benedetto XVI, che è un padre della Chiesa, credo che bisogna risalire addirittura a Leone Magno nel quinto secolo dopo Cristo, per trovare un equivalente di questo livello. Come tutti i papi, Francesco ha uno stile personale, guidato soprattutto da una misericordia incredibile e misteriosa di Dio, che trasmette a tutti i livelli con il suo pontificato.
D. Che cosa significa, dal punto di vista filosofico, la parola «misericordia»?
R. Evoca dal punto di vista biblico le viscere di misericordia del nostro Dio, che nella zona del cuore ha un sussulto interiore di passione per le persone. Il nostro Dio è fatto così. Se siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Dio, anche noi dobbiamo provare tale sussulto soprattutto nei confronti dei meno abbienti e di chi ha bisogno di essere seguito. La misericordia è una virtù, una caratteristica che deve contraddistinguere il figlio di Dio.
D. C’è una linea d’unione tra Benedetto XVI e papa Francesco?
R. Certamente, è stabilita dalla continuità precisa della dottrina. Lo scorso anno io, che sono particolarmente legato per motivi affettivi e tanto altro al Papa emerito, ero fortemente turbato; ho rivolto una preghiera speciale al Signore e allo Spirito Santo in particolare, affinché ci desse un pastore in grado di raccogliere e comunicare efficacemente la dottrina di Benedetto XVI, soprattutto ai giovani che maggiormente mi interessano per il mio ministero. A un anno di distanza, devo dire che sono stato perfettamente esaudito dal Signore.
FONTE: Specchio Economico