Che la società odierna sia improntata all’individualismo, lo sanciscono, per esempio, i dati riguardanti la città di Milano, dove il 51% delle famiglie è composta da una sola persona.

Le cause sono molteplici e le colpe non sono da imputare al singolo individuo.  E’ una percorso lungo due decenni, costellato di scelte disvaloriali, edonistiche.
Spesso la cronaca racconta di persone aggredite in strada, sui mezzi pubblici, nelle piazze, con pochissimi cittadini che intervengono a difesa. Spesso per paura di conseguenze letali, oppure per assuefazione alla scene di violenza frequenti.
Una situazione figlia della globalizzazione, della volontà di omologazione, il tutto cotntornato dalla nuova tecnologia che avvolge le persone in una realtà mediata, virtuale, spersonalizzata, dove gli individui diventano prigionieri, privati della vera realtà, della reale libertà.

Un episodio accadutomi ieri, in mattinata, ne è una prova.

In sella alla mia bicicletta in direzione Valganna, entrando a Varese, non troppo distante dall’ospedale di Circolo, alle mie spalle odo la sirena di un mezzo di soccorso che si avvicina sempre più.

Rallento, quasi a fermarmi, noto che il mezzo di soccorso, anzichè raggiungere il vicino nosocomio, svolta alla prima strada a destra, accaostando davanti ad un fabbricato.

Un po’ goffamente non riesco a sganciare la scarpa dal pedale destro, la ruota anteriore si inserisce nel cordolo prospiciente il marciapiede, e la conseguenza inevitabile è la caduta sul selciato, che mi fa sbattere la parte destra del corpo contro lo spigolo e  anche, in maniera lieve, il capo protetto dal caschetto che indosso.

Disteso a terra, riesco a sganciare le scarpe dai pedali, mi rialzo in piedi, avvertendo dolori un po’ ovunque, bruciori sulla pelle abrasa dall’impatto, e un dolore più forte nella zona della spalla destra, che mi ha fatto sorgere il timore di aver subito una frattura alla clavicola e di dover recarmi al vicino ospedale, in cui, peraltro fui “ospite”, per una precedente caduta, 14 anni fa.

Muovo l’articolazione e, ringraziando il Cielo, non avvertendo danni a livello osseo, sciacquo le abrasioni con l’acqua contenuta nelle borracce, riposiziono il caschetto, provo a muovere le articolazioni percependo dolori moderati, e, al contempo, osservo che alcuni passanti stanno transitando, ma non si accorgono dell’accaduto perchè intenti a guardare i display dei loro smartphone, compreso l’autista del mezzo di soccorso, che era precedente sceso dall’autoveicolo; non professano alcuna parola per chiedermi se avessi bisogno di aiuto, e se avessi subito danni fisici importanti.

Dopo qualche istante, un signore attempato mi domanda se fosse “tutto a posto”. Lo ringrazio e gli rispondo dicendogli che è tutto ok.

Risalgo in bicicletta, dopo un controllo del mezzo per sincerarmi che non vi fossero danni, e proseguo nella direzione scelta per raggiungere l’imbocco della salita da affrontare.

I pensieri e ricordi scorrono veloci.

Penso a quanto egocentrismo e individualismo esista nella nostra società. Una società iper-individualista creata dall’imposizione virtuale dei nuovi “padroni” del mondo virtuale.

Un consolazione e un speranza si rinfocola in me pensando alla persona che si è rivolto a me, che si è interessato del mio stato di salute.

Quel pensiero mi induce ad una trasposizione dal mondo virtuale a quello spirituale.
Quel signore con i capelli grigi, mi ha rammentato il mio ex collega (classe 1930) delle nostre centinaia di uscite in bicicletta fino a 15 anni fa.

Il mio “maestro” di ciclismo, ma non solo.

Una persona gioviale, generosa, socievole; un “enciclopedia vivente” riguardo il ciclismo, gli aneddoti legati a questo sport, alle centinaia e centinaia di uscite in sella alla bicicletta, i divertenti racconti legati alla sua lunga esperienza (il più esilarante, quando non riconobbe Giuseppe Saronni, incontrato sulla salitella di Gazzada, e gli chiese se fosse un dilettante, o un gregario, e rimanendo esterrefatto e imbarazzato quando il campione lombardo dichiarò le sue generalità) di oltre 60 anni a percorre le strade e le salite del Verbano, Cusio, Ossola, Varesotto, Comasco, Lecchese.

Ma anche i racconti di vita, degli anni del dopoguerra, delle fatiche, lui rimasto orfano appena maggiorenne, della ricostruzione, dei valori, delle tradizioni imprescindibili, e della sua fede incrollabile accomunata dalla sua speranza nel futuro.

Sempre ottimista, anche quando la malattia gli limitò le uscite in sella alla sua amata bicicletta, che considerava la “panacea” di tutti i mali.

Passò a miglior vita a causa proprio di una caduta dalla bicicletta (quando si dice il Destino, o per chi è credente per il volere di Dio), non lontano da casa, che gli procurò un danno cerebrale severo.

Raggiunse “l’altro mondo” da uomo libero.

Il rispetto per la sua maggiore età, e la sua vita, mi indussero a colloquiare utilizzando sempre il “Lei” (una forma di rispetto ormai rara, oggigiorno), seppur era un vero amico.

Ricordandolo, mentre attraversavo la città di Varese, e con alcune parti del corpo indolenzite per la caduta, mi hanno destato nella mente quando fui vittima di una caduta in bicicletta 14 anni prima, allorché sbattendo violentemente il capo (privo di protezione del caschetto, scelta scellerata, che in quegli anni in molti, di noi cicloamatori, facevamo) sui binari della linea in disuso ad Induno Olona, mi provocò una commozione cerebrale, con conseguente ricovero in rianimazione presso l’ospedale di Varese.

I danni che subii furono lievi e senza ulteriori conseguenze.

Quella “grazia ricevuta” l’ho collegata “al pronto intervento” dei miei due custodi celesti, mio padre e il mio ex collega ciclista. 

L’Entità Superiore, secondo la credenza religiosa, affida alle anime il compito di intervenire a protezione di alcuni poveri mortali con i quali hanno percorso un tratto più o meno lungo della vita terrena.

Un compito facente parte del progetto di vita che la Divinità ha stabilito per ognuno, e di cui non conosceremo mai il filo invisibile che tiene unito le vicende che ci capitano.

Ne avremmo contezza solamente alla fine del nostro viaggio terreno.

Così ho pensato che il breve ricovero in rianimazione (36 ore) correlato da intubazione respiratoria, coma farmacologico, e martoriato da vari cateteri, fu decretato da mio papà, che rese lo spirito dopo 25 giorni di indicibili sofferenze in un reparto di terapia intensiva di un altro ospedale due anni prima; così come non aver subito alcun danno cerebrale, fu dovuto al pronto intervento del mio ex collega cicloamatore, credente fervente, a cui l’Entità Superiore gli affidò questa mansione.

Questi pensieri religiosi, filosofici, mi hanno accompagnato fino alle pendici della salita che ho affrontato con le gambe ancora più arse dai dolori della caduta, ma desideroso di giungere alla meta prefissa (del resto, “per aspera ad astra”), e immerso nella tangibile realtà della vita, non nella vacua pseudo-realtà virtuale.