Uscirà nelle sale il 20 settembre 2018 il film SEMBRA MIO FIGLIO, scritto, diretto e prodotto da Costanza Quatriglio.
Sinossi
Sfuggito alle persecuzioni in Afghanistan quando era ancora bambino, Ismail vive in Europa con il fratello Hassan. La madre, che non ha mai smesso di attendere notizie dei suoi figli, oggi non lo riconosce. Dopo diverse e inquiete telefonate, Ismail andrà incontro al destino della sua famiglia facendo i conti con l’insensatezza della guerra e con la storia del suo popolo, il popolo Hazara.
NOTE DI REGIA
Un figlio si rivolge alla madre creduta morta fino a quel momento, ma lei non lo riconosce. Da quell’istante una forza misteriosa lo porta alla ricerca del modo per ricongiungersi a lei. Il corpo di Ismail, la mitezza del suo viso, la sua voce sospesa tra gli angoli più angusti dell’Europa, ci conducono in un altrove che ci appartiene molto di più di quanto siamo disposti a immaginare: dall’evocazione di posti lontani nel tempo e nello spazio a una concretezza fatta di carne e sangue, il film viaggia alla ricerca di risposte che non esistono; ad esistere è la possibilità, per Ismail, di prendersi la parola, quella parola negata perché nessuno, fino a quel momento, l’ha ascoltata. Nella lingua madre riconosciamo la lingua del mondo, della pietà antica che non ha patria né paese né confini né frontiere.
Costanza Quatriglio
STORIA DEL FILM
Jan
«Quando incontro per le strade i ragazzi afghani, io chiedo come sono arrivati qui, da quale parte dell’Afghanistan provengono, se vengono proprio dalla mia zona… forse prima o poi conoscerò qualcuno che mi darà la possibilità di trovare la mia famiglia… cerco sempre qualcuno a cui chiedere dove sta la mia famiglia».
Queste parole sono state pronunciate da Mohammad Jan Azad in chiusura del mio film documentario Il mondo addosso, girato a Roma tra il 2005 e il 2006.
Arrivato in Italia dopo aver attraversato il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, Jan viveva in un centro per minori stranieri non accompagnati; era partito a piedi dall’Afghanistan quando era ancora bambino, come tanti suoi coetanei sfuggiti alla furia dei Talebani negli anni che hanno preceduto l’11settembre.
Dal momento del distacco dalla madre, di lei non aveva avuto più notizie.
Nessuno avrebbe mai immaginato che le parole di Jan si sarebbero avverate.
Nell’estate del 2010 apprendo da Jan che la sua vita è cambiata dal momento in cui ha avuto il primo contatto telefonico con âbay, mamma.
Comincia per me un viaggio nella trascrizione dei suoi racconti: pagine e pagine, centinaia di fogli in cui mi immergo e da cui prendo distanza per poi immergermi di nuovo e ancora prendere distanza. Ne nasce subito il cortometraggio Breve film d’amore e libertà in cui Jan, con generosità e coraggio, rivive le telefonate con la madre fino al punto di rottura di ogni emozione, il riconoscimento.
Passano ancora anni, lascio che la vita abbia il suo corso, poi arriva il momento e mi decido.
Ismail, due fratelli, una famiglia, un popolo
Le centinaia di pagine raccolte nell’arco di cinque, sei anni, diventano la base per inventare una storia che entra ed esce dalla realtà, tutt’intorno a un giovane uomo chiamato Ismail, a due fratelli, a una famiglia, a un popolo. Un allargamento graduale in cui il fuori campo entra progressivamente in campo nel segno di una presenza, quella della madre, condannata all’assenza dall’imperitura legge del più forte. Scelgo la strada della narrazione discontinua, dove il processo di disvelamento attraverso ellissi, spaesamenti e distensioni, è l’emersione del rimosso che unisce in un’unica preghiera Ismail a noi, e noi alla storia nascosta di un popolo che non conosce pace. Questo mi porta a prediligere l’ampliamento progressivo delle inquadrature: dai piani stretti che lasciano intendere il mondo fuori campo agli spazi immensi dove confondersi nella massa anonima.
Andare alla radice del racconto di Ismail e della madre mi ha permesso di conoscere il contesto in cui la storia precipita: il popolo hazara è oggi forse l’etnia più perseguitata al mondo, anche se di questa gente mite, originariamente buddista e oggi perlopiù di fede sciita, pochi sanno e vogliono sapere; chi conosce le vicende de Il cacciatore di aquiloni, il best-seller di Khaled Hosseini, si ricorderà, forse, che il piccolo protagonista vittima di ogni forma di odio e violenza, è di etnia hazara.
Jan e i suoi fratelli sono i figli della diaspora. Lo sradicamento è la condizione dell’esistenza; impossibile appartenere a un solo luogo.
L’hazaragi, lingua di origine indoeuropea al pari di ogni altra forma di persiano, con le sue magie lessicali rivela radici condivise anche con gli angoli più nascosti dell’occidente: mâdar… padar… obarâdar per dire fratello…
Mi torna in mente quanto scrivevo a proposito de Il mondo addosso: cioè che quello era un film sul futuro del nostro Paese. Oggi direi che il nostro Paese e l’Europa tutta devono ripartire da storie come quelle di Jan e dei suoi fratelli per ritrovare quel senso dell’umano che sembra aver perduto per sempre.
Tutte le madri possibili
La realizzazione del film è durata molto tempo. Nulla è stato semplice, al contrario, innumerevoli sono state le sfide da affrontare nel nome di questo film impossibile, ma forse per questo, rocambolescamente, è stato più che entusiasmante.
Con gli attori, il poeta Basir Ahang e tutto il cast, abbiamo attraversato zone della condivisione che non avrei mai pensato e che ci hanno regalato momenti di emozione unici e totalizzanti.
Verità e finzione non esistono.
Il tempo del fare è stato un mescolamento continuo, un prendere (e apprendere) e un perenne restituire, come quando il vecchietto Dost Alì (letteralmente «Amico di Alì»), conosciuto in un piccolo villaggio dell’Iran e poi attore nel film, alla domanda «Secondo lei cosa dovrebbe raccontare un film sul popolo hazara?», ha risposto con gli occhi ancora pieni dell’orrore subìto nel ‘97 durante il massacro di Mazar-e-Sharif perpetrato dai Talebani sulla popolazione inerme: «Che non dobbiamo essere uccisi».
O ancora, quando una donna, a lungo zitta e in disparte, è intervenuta in una conversazione appena ha sentito che conoscevo molti ragazzi hazara in Italia. Mi ha chiesto il nome di ciascuno e se sapevo da quale posto venissero con precisione, così da raccontarmi che anche lei è âbay, sopravvissuta nel sognosegreto di incontrare un giorno qualcuno che potesse darle notizie del suo amatissimo figlio.
Tante le storie possibili, tante le madri possibili.
Tra loro la signora Ahang, atterrata una notte all’aeroporto di Teheran. Arrivata da Kabul, non vedeva suo figlio Basir da tantissimi anni, da quando lui era stato costretto a lasciare l’Afghanistan.
Era con noi per lui, perché Basir è il protagonista del film.
Mai come allora, con il cuore in gola, mi è stato così chiaro che vita e cinema possono mescolarsi, e che quando questo accade è il dono più raro e prezioso.
SEMBRA MIO FIGLIO
Un film di Costanza Quatriglio
con Basir Ahang Dawood Yousefi Tihana Lazovic
scritto da Doriana Leondeff e Costanza Quatriglio
in collaborazione con Mohammad Jan Azad
una produzione Ascent Film con Rai Cinema
in coproduzione con Caviar and Antitalent
in collaborazione con Film in Iran – con il supporto di Eurimages – con il contributo di
Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo e Croatian Audiovisual Centar
Con il supporto di Belgium Tax Shelter e Friuli Venezia Giulia Film Commission e
Regione Lazio- Fondo Regionale per il cinema e l’audiovisivo
Soggetto Costanza Quatriglio Scenografia Beatrice Scarpato
Costumi Nathalie Leborgne
Suono Alessandro Palmerini
Musica Luca D’Alberto
Montaggio Letizia Caudullo e Marie-Hélène Dozo
Fotografia Stefano Falivene e Sabrina Varani
Prodotto da Andrea Paris e Matteo Rovere
Dal 20 settembre al cinema distribuito da Ascent Film
Nota sul popolo Hazara
Il popolo Hazara conta oggi quasi otto milioni di persone. Gli Hazara sono vittime di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sia in Afghanistan che in Pakistan, dove la comunità è ciclicamente colpita da attacchi di gruppi terroristici sunniti. Originariamente buddisti, gli Hazara vivono perlopiù nelle zone centrali dell’Afghanistan dove le due enormi statue di Buddha, simbolo della loro storia e cultura, sono state distrutte dai Talebani nel marzo 2001. A causa dei tratti somatici mongoli, si dice discendano dall’armata di Gengis Khan che invase l’Afghanistan nel tredicesimo secolo; alcuni storici, al contrario, sostengono che gli Hazara siano il popolo autoctono dell’Afghanistan. Il primo tentativo di genocidio risale al 1890, ad opera del re dell’Afghanistan Abdul Rahman Khan che riuscì a sterminare il 62% della popolazione. Un secolo dopo, a partire dalla fine degli anni novanta, i talebani hanno dato il via a una serie interminabile di violenze. Solo nei primi cinque mesi del 2018, nelle aree abitate dagli Hazara, quasi mille persone sono state uccise in attacchi suicidi e attentati.